WHITE ALBUM

Un’occasione imperdibile per i fans dei Fab Four di immergersi nell’esecuzione integrale di questo capolavoro senza tempo, che ancora oggi non smette di sorprendere e affascinare.
Il White Album segna un’ennesima svolta nel percorso dei Beatles e nasce come vera e propria antitesi ai colori sgargianti e agli eccessi psichedelici i Sgt. Pepper’s. E’ un lavoro che lascia spazio all’anarchia musicale e alla provocazione, a cominciare dalla famosa copertina interamente bianca.
Coordinato, sballato, conciso e serrato, White Album è un’opera altamente ambiziosa che i Magical Mystery vogliono riproporre il più fedelmente possibile, rispettandone il carattere che la distingue, in bilico tra semplicità e asprezza.
Per ridare vita a quel fantastico microcosmo di sonorità e generi, dal rock’n’roll al vaudeville, alla pseudo-avanguardia, all’hard-rock, a ballate dal sapore classicheggiante, la formazione standard dei Magical Mystery (quintetto pop, quartetto d’archi e trio di fiati) accoglierà al proprio interno altri dieci musicisti.
Opera altamente ambiziosa, il White Album segna l’ennesima svolta nel percorso dei Beatles e nasce come vera e propria antitesi ai colori sgargianti e agli eccessi Psichedelici di Sgt Pepper e all’ottimismo della “Summer of love”, che l’anno precedente aveva visto il quartetto incidere All you need is love, un inno planetario all’amore. Nel Doppio bianco largo spazio è lasciato all’anarchia musicale e alla provocazione, a cominciare dalla famosa copertina, interamente bianca, con scritta in rilievo bianco su bianco. Un disco praticamente senza nome che assunse fin da subito il valore di una pietra miliare nell’intensa storia del decennio. Nel maggio 1968 i Beatles si ritrovarono a casa di George Harrison a Esher, nel Surrey, per registrare una demo dei pezzi che avevano composto separatamente negli ultimi mesi. Erano da poco tornati dalla trasferta a Rishikesh in India, carichi di esperienze e di canzoni create grazie al molto tempo libero a disposizione e alla particolare atmosfera di quel luogo. I brani prodotti erano ben trenta, per cui si fece subito strada l’idea di un doppio album, anche se il produttore George Martin era contrario. Le sedute di registrazione resero palese che, complice l’India, l’età, il successo o altro, i rapporti tra i quattro ragazzi erano cambiati. Ognuno di loro voleva esplorare le proprie capacità in autonomia e mostrare di avere un’identità indipendente. Il risultato fu un album non composto da un gruppo, bensì da quattro singoli artisti con stili e pensieri differenti. Diversi brani furono scritti e gestiti da un unico componente, che a volte si serviva degli altri tre come turnisti, a volte incideva da solo tutti gli strumenti e le voci. Lungo le trenta tracce del disco si snoda un lunghissimo e variegato viaggio in generi musicali diversi, dal rock psichedelico al country folk, dal jazz alla musica da camera, dal blues al rock and roll: ci sono brani costruiti utilizzando la tecnica del finger picking, che i Beatles avevano appreso in India da Donovan, tra questi, Dear Prudence, dedicata a Prudence Farrow, sorella della più famosa Mia Farrow, e Julia, la struggente canzone d’amore composta da Lennon per la madre morta quand’era ragazzino, in cui alle immagini poetiche dedicate alla mamma John sovrappone l’epiteto di “figlia dell’oceano”, significato giapponese del nome Yoko, la sua nuova compagna. C’è il rock pesante di Helter Skelter e c’è anche la prima canzone firmata da Ringo, Don’t pass me by; c’è l’irrisione al santone indiano di un Lennon disincantato, che appellandolo Sexy Sadie gli chiede come sia riuscito a ingannare tutti quanti. E c’è il testo dissacrante di Piggies di George Harrison, contro il materialismo dilagante in cui gli uomini vengono descritti come maiali che con forchetta e coltello mangiano il bacon. Vi si trovano inoltre riferimenti alle armi, alla felicità vista come “pistola calda” in Happiness is a warm gun Lennon, che di lì a dodici anni da una pistola sarebbe stato ucciso, agli impulsi suicidi di Yer Blues, ai fucili di uno bizzarro cacciatore, Bungalow Bill, alle sparatorie western di Rocky Raccoon. Ci sono i riferimenti al sesso, con l’esplicito invito di Paul in Why don’t we do it in the road?, ma anche al mondo giovanile confuso e in subbuglio, con Revolution di un Lennon interessato ma perplesso. Non mancano neppure amore e positività in questo disco, soprattutto grazie ai contributi di Paul McCartney, e c’è spazio anche per una preghiera a tutti gli effetti, Long, long, long, scritta da Harrison parlando con Dio, una ballata delicata e intensa, in cui la voce del chitarrista folgorato dalle religioni orientali dialoga con la batteria di Ringo. La penultima traccia del disco è il celebre collage sonoro della durata di oltre 8 minuti intitolato Revolution 9, un brano di musica sperimentale con grida e rumori alternati a fraseggi di pianoforte e alla voce di un dipendente della EMI che, testando un nastro, ripete la frase: «number nine, number nine…». Infine, la dolcissima ninna nanna Goodnight, composta da Lennon per il figlio di cinque anni Julian e ceduta alla voce calda di Ringo, accompagnato da un’orchestra volutamente sdolcinata e hollywoodiana.
Quello che i quattro realizzarono in quel 1968, in quasi cinque mesi di registrazione, determinò in parte inconsapevolmente la fine di un’epoca che i Beatles più di chiunque altro avevano incarnato: la favola di ottimismo e speranza degli anni Sessanta.